di Silvia Agabiti Rosei

Archivio dell'autore

Public Service Broadcasting – Lanificio 159 – 18 Marzo 2014

PSB-12È un momento, questo, in cui fare rock in maniera originale sembra impossibile. L’appiattimento culturale in cui versiamo in ogni settore si rispecchia inevitabilmente nelle note, dentro e fuori del Belpaese e dei suoi noiosi rantoli sanremesi. Almeno in superficie, sotto i riflettori e il consumo di massa. Eppure, negli scantinati dell’underground e del settore emergente, questo momento riesce anche a offrire interessanti spunti sonori, come quelli proposti dal duo londinese Public Service Broadcasting: un connubio di musica elettronica, campionature psichedeliche, batteria, chitarra e banjo, basso e tastiere, arricchito dalla voce di speaker di vecchi filmati inglesi, pre e post Seconda Guerra mondiale.

J. Willgoose, Esq. e Wrigglesworth, nel loro tour europeo che ha toccato nuovamente anche Roma il 18 Marzo, salgono sul palco del LanificioGuitar 159, con i loro strumenti e un maxischermo su cui, parte integrante della performance e dei loro brani, appaiono le immagini dei filmati in bianco e nero che caratterizzano anche i loro video. Forse con volumi eccessivamente alti, almeno per gli astanti delle prime file, la musica dei PSB riempie la sala e coinvolge il pubblico dalle prime note, affatto scontate, con ritmica e chitarra a tratti persino dure, nonostante il genere che i due, in cravatta, papillon e occhialoni da nerd, dicono di comporre: underwhelming, intendendo sostanzialmente “che non fa né caldo né freddo”. Degni di rilievo i brani Spitfire, If war should come, tratti dal nuovo album “The War Room”, nonché Everest, tratta dall’album “Inform Educate Entertain”, che presentano una certa varietà di gusto sonoro, ma che sono tutti caratterizzati dalla voce di speaker ormai defunti, immortalati negli archivi dell’emittente inglese BBC.

BatteryUna scelta, quella di usare voci registrate, simpaticamente confermata dagli interventi vocali sul palco, mai diretti, ma sempre frutto di campionature. Ed è piacevolmente strano assistere a uno spettacolo rock che, grazie al concept della propaganda retrò e al contrasto tra l’aspetto del duo nerd e la loro carica musicale, regala al pubblico una ventata di originalità. Certamente tutta inglese.


Intervista a Simone De Laura, dj di Radio Rock

simonerrockÈ uno dei dj della storica radio romana dedicata al Rock e, a parere personale, una delle voci più belle del panorama radiofonico italiano. Simone De Laura, dal background musicale colto e raffinato, ha risposto ad alcune mie domande.

Da quanto tempo fai questo lavoro e quando sei entrato nel team di Radio Rock?

Sono entrato a Radio Rock nel 2009. Precedentemente avevo lavorato per un triennio in altre radio.

Raccontaci come è nato il tuo interesse per la musica.

Ho avuto la fortuna di avere dei genitori appassionati di musica, mi hanno fatto ascoltare molti e diversi autori, me ne hanno parlato e mi hanno fatto studiare musica. Il resto è venuto da sé, molto naturalmente. Da adolescente leggevo tutto quello che era possibile, riviste e libri di argomento musicale. A quattordici anni un gesto quasi folle… mi presentai da una radio privata e mi presero. Da allora fino ai diciassette anni ho trasmesso per radio. Una lunga pausa, poi ho ricominciato con Radio Rock nel 2009.

L’impressione che si ha ascoltando l’emittente Radio Rock è che nel vostro mestiere si abbia in partenza, o comunque si sviluppi nel tempo, una cultura vastissima nell’ambito Rock e non solo, al di là della pura passione per le note e gli artisti. Questo, ascoltando la tua programmazione e i tuoi interventi, è particolarmente evidente. Quanto tempo dedichi allo studio della storia, dei generi e degli artisti del mondo della musica?

Vivendo all’interno di un’emittente radiofonica, ovviamente si “respira” musica, la ricerca è poi un percorso personale. Da quando sono un ragazzino leggo e mi informo. Amo ancora oggi prendere un libro o una rivista di musica, aprire a caso una pagina e rileggere. Poi l’ascolto, la condivisione e lo scambio di opinioni con i colleghi. L’accesso a pagine infinite sul web amplia notevolmente la ricerca, anni addietro la conoscenza avveniva solamente tramite le riviste, i libri, i cd.

Sei anche un musicista, quali sono le tue basi e le tue tendenze sonore?

Ho avuto la fortuna di studiare chitarra, pianoforte e basso, ma non mi reputo un buon musicista. Ho sempre suonato molto rock, anche a livelli alti, ho avuto la fortuna di fare concerti, sala e anche alcune sedute come turnista. La mia personale passione è sempre rimasta lì… rumore… Rock!! Le mie tendenze e preferenze d’ascolto vanno al Rock, nella sua accezione più ampia e alla musica classica.

Nella tua programmazione si notano spesso anche venature sperimentali, oltre che Rock tout court, mi riferisco ad esempio a gruppi come i Dead Can Dance, che io stessa seguo particolarmente. In che modo, in base alla tua esperienza e alle tue personali sensazioni, le loro sonorità catturano l’attenzione di chi si occupa prevalentemente di rock?

Sì, assolutamente sì, spesso sonorità particolari attirano l’attenzione anche di chi è abituato al rock più classico. Il perché è assolutamente inspiegabile. Per fare un esempio, all’inizio degli anni Settanta l’Italia era all’avanguardia per ascolto e fruizione di musica progressive, i Genesis venivano in tournée in Italia ed erano sconosciuti in patria… Le vendite dei dischi erano notevoli per un tipo di musica “difficile”, eppure era un fenomeno. L’ascoltatore e il fruitore di musica italiano è particolare, oscilla fra ascolti molto modesti ed eccellenze incredibili.

Ci sono stati, nei decenni, molti pregiudizi sul genere Rock, specie in Italia, dove ancora oggi sembra esserci resistenza a una fruizione e a una diffusione ad ampio raggio. Quali sono le ragioni di tali freni?

L’Italia è il paese del bel canto, tradizionalmente classico, il Rock veniva “da fuori”, era diverso, quindi una non facile accettazione. Adesso in Italia si fruisce della musica come in tutti gli altri paesi del mondo. Un tempo il Rock era sempre associato a perdizione, rumore, sesso, droga e rock’n’roll. Culturalmente è ancora “di nicchia”, se ne parla poco, spesso male. Radiofonicamente parlando è scarsissimo, inesistente.

Nonostante ciò, recentemente, anche grazie al contributo di Radio Rock, alcune band italiane emergenti sembrano dare respiro al genere anche qua e interessare parte del pubblico. Cosa sta accadendo, quindi, di nuovo?

Una maturazione e una più ampia conoscenza della musica ha sicuramente influito sui nuovi musicisti, ponendoli anche a livelli internazionali. Molta più consapevolezza, anche una maggiore preparazione tecnica. L’unica osservazione negativa è un eccesso di presunzione, ossia, la tecnologia attuale consente di “confezionare” un intero album in casa, il che è bellissimo, il problema è appunto la presunzione. Il livello qualitativo delle registrazioni e dei lavori è sceso notevolmente, anche a livello internazionale, tutti si sentono”Gran Maestri” di tutto, e purtroppo spesso si sente. Un percorso che i gruppi italiani dovrebbero curare con maggior attenzione è la voce, dovrebbero studiare canto e ascoltarsi. Non basta aprire un microfono e tirare fuori il fiato.

Quanto è cambiato il panorama musicale in genere, peculiarmente quello Rock, negli ultimi anni, dato che l’idea prevalente è che non si faccia più musica valida come fino a un decennio fa o anche prima?

Prima ci sono stati i pionieri, la nascita del Rock, adesso si cercano le sonorità e i suoni degli anni ’60 e ’70, c’è una vera e propria ricerca dei suoni “antichi”, una vera mania. Sostanzialmente il panorama attuale della musica a livello internazionale è assolutamente aperto, non esistono più grandi e nuove correnti musicali, ognuno fa quello che vuole. Molte cose sono valide, altre suonano male. L’unica caratteristica sonora di molti gruppi è la scomposizione sonora, ovvero la frammentazione del suono, moltissimi gruppi “colorano” i brani in maniera “scomposta”, alcune soluzioni suonano bene, purtroppo nella maggioranza dei casi è rumore scomposto. Il fatto è che piace, molte recenti produzioni sono piene di “frammenti sonori”. Il problema è che Moby è uno solo. La ricerca delle sonorità “antiche” è spesso un rifugio, un’illusione, il fatto di possedere un amplificatore Vox AC30 originale degli anni sessanta non garantisce che il prodotto finale sia valido. Il suono più ricercato è comunque sempre il garage originale, la psichedelia della metà degli anni Sessanta. Quelle sonorità sono ricercatissime, Velvet Underground docet.

Come persona sensibile agli aspetti emotivi e intellettuali del mondo musicale, oltre che, ritengo, del contesto sociale e culturale in genere, cosa ti aspetti dal futuro imminente?

Mi aspetto sempre buona musica, meno presunzione. Non esistendo, attualmente, nuove correnti, il panorama è assolutamente aperto. Una cosa che mi dispiace è che attualmente si parli poco dei testi delle canzoni, si parla sempre di musica, mai dei testi.

Ci puoi confidare, da musicista e dj, un tuo sogno nel cassetto?

Mi piacerebbe moltissimo poter intervistare e far suonare Peter Gabriel a Radio Rock, è un genio.

 


Necropoli di Anghelu Ruju e Nuraghe di Palmavera

Il profumo che intride l’aria della Sardegna è una mistura di frutti di terra e di mare e lo sguardo non sa davvero dove sostare, confuso piacevolmente da tutti i toni del giallo, del verde e dell’azzurro. Basterebbe questo appagamento dei sensi offerto dalla natura a confermare la terra sarda come una delle più suggestive del Paese, ma senza fare troppo rumore intervengono anche la sua archeologia e la sua storia, costellando il territorio di vestigia attribuite alle civiltà pre-nuragica e nuragica, entrambe misteriose.

1Nel comprensorio di Alghero, a nordovest dell’isola, sono presenti due siti visitabili con il prezzo di un unico biglietto da 5 euro: la necropoli di Anghelu Ruju e il nuraghe di Palmavera.

La necropoli di Anghelu Ruju è situata di fronte alla rinomata tenuta Sella & Mosca, la più importante azienda vitinicola della Sardegna. Composta da 38 tombe ipogeiche a domus de janas (letteralmente “case delle fate”, strutture sepolcrali preistoriche), talvolta con corridoio di ingresso (dromos) è stata scoperta nel 1903 e gli scavi sono stati portati avanti principalmente dall’archeologo Antonio Taramelli.

2All’interno della necropoli sono stati ritrovati suppellettili, armi e oggetti riferiti al culto della Dea Madre. Ancora evidenti sono alcune teste scolpite di toro, animale sacro in tutto il bacino del Mediterraneo, spesso connesso alla forza e alla fertilità. Risalenti a un periodo compreso tra il Neolitico, l’Età del Rame e del Bronzo, le tombe vengono attribuite alle culture pre-nuragiche di Ozieri (3300-2900 a.C.), dell’Eneolitico (2900-2000 a.C.), di Abealzu-Filigosa, del Vaso campaniforme, di Monte Claro, di Bonnanaro (2800-1600 a.C.).

 

3Presso il territorio della vicina Fertilia, lungo la baia di Porto Conte, è ubicato il complesso nuragico di Palmavera,  alle spalle il verde della collina e all’orizzonte il blu intenso del mare. Ben gestito dall’organizzazione locale, presenta un sistema di illuminazione per le visite notturne. Si tratta di un nuraghe bilobato, costituito da una torre risalente al XV secolo a.C., inclusa in un bastione ellittico con due ingressi. Come riportato dalla didascalia lì presente, il bastione raccorda una torre secondaria, formando un cortile a cielo aperto, con due scale sopraelevate e un corridoio con nicchie e scala che conduce al terrazzo. La torre originaria, del diametro di 10 metri e dell’altezza residua di 8 metri, nel piano terra conserva la camera coperta “a falsa volta” (tholos) con due nicchie.

5Nel complesso, restaurato e comodamente visitabile, spicca la capanna delle riunioni, con sedili addossati al perimetro murario e un betilo-torre al centro, forse un altare per officiare durante i culti.

Il nuraghe, una torre troncoconica con massi collocati a secco, senza dunque l’uso di malte o altri leganti, è un tipo di costruzione edificata per scopi difensivi e/o rituali, abitativi, in taluni casi persino astronomici, certo somigliante, nelle versioni complesse, a una vera e propria fortezza.

4

Quali siano le origini della civiltà nuragica, se mesopotamiche, fenicie, ittite, micenee o semplicemente locali, se sia essa legata agli Shardana, il popolo del mare il cui nome, così vicino a quello di Sardegna, è presente in alcuni testi egizi, rimane forte il mistero che la avvolge. E questo nonostante la nutrita statuaria recuperata, in cui spiccano i noti bronzetti ritraenti uomini e donne dettagliatamente abbigliati.

Per informazioni: Sarda Interpreti Lingue e Turismo, Nuraghe Palmavera S.S. 127 bis, km 45, 450 – Fertilia, Alghero (SS). Tel: 3294385947 – Email: silt.coop@tiscali.it

 

Foto di S.A.R.


Noi Siamo Infinito

locandinaHo avuto modo di guardare il film Noi siamo infinito (2012), titolo italiano della pellicola statunitense di Stephen Chbosky, The perks of being a wallflower (tradotto all’incirca come “i vantaggi di essere un timido”… o meglio, uno che fa tappezzeria!), a sua volta tratto dal romanzo dello stesso regista, scritto nel 1999.

Nonostante la scarsa fama nel nostro paese, ne avevo sentito parlare piuttosto bene, specie da chi ha vissuto la propria adolescenza negli anni Novanta.

In breve, per non svelare nulla ma solo invitare alla visione del film, la storia è quella di un ragazzo al suo primo anno di scuola superiore, nel 1991-’92, il timido e dolce Charlie, interpretato da Logan Lerman, alle prese con l’amicizia, il primo amore, la sua passione per la letteratura e la scrittura e un segreto che lo devasta dall’infanzia. Le vicende di quell’anno e il rapporto speciale con Sam, interpretata da Emma Watson (la brillante e celeberrima Hermione Granger della saga di Harry Potter) e con il fratellastro di lei, Patrick (al secolo Ezra Miller) costituiranno per Charlie il suo periodo di formazione, quello di cui dovrà scrivere, un giorno, per ricordare quel suo sentirsi infinito…

In un film generazionale è difficile non immedesimarsi e non provare una normale malinconia per un’epoca vissuta, soprattutto per delle vicissitudini che, pur con variabili, compongono il sostrato di una partitura sociale, di un’intera cultura, intrisa degli stessi ideali, valori, dei medesimi sogni. E nella pellicola di Chbosky, tratteggiata con delicatezza, con i colori forti eppure non invadenti che gli occhi oggi non scorgono più, feriti da un abominevole caos crescente, è un fatto immediato e inevitabile. Anche per mezzo di una colonna sonora pazzesca da cui la pellicola non può prescindere, pregna delle sonorità e atmosfere rock dei primi anni Novanta e della scena Grunge che stava sbocciando, nonché segnata dall’omaggio a Heroes di David Bowie, brano intramontabile, come forse solo la musica può essere e come noi tutti, adolescenti cresciuti in perenne ricerca di noi stessi e di una traccia immortale da lasciare, vorremmo sentirci. Come infinito…

Perché è struggente eppure meraviglioso scoprirsi adulti da un pezzo, rimembrare e rimpiangere il passato che, si sa, non torna più, attraverso le emozioni innescate dall’arte cinematografica e musicale, per poi rendersi conto di essere rimasti quelli di allora, con strati su strati sovraimposti dagli altri e da noi stessi, senza accorgercene, desiderosi improvvisamente di rimuoverli nonostante obblighi, doveri, responsabilità e un contesto così differente e difficile, quello che non ci saremmo mai immaginati, talmente diverso nei pochi anni che ci separano da ieri a oggi da rimanere sconcertati. Uno stato paradossalmente invidiabile, in quanto foriero non di un ritorno indietro, bensì di un passo in avanti, forse un po’ più consapevole.

Noi siamo infinito è un connubio di buon cinema e bravi interpreti, affatto scontati; di musica e fotografia e del sogno di una generazione. La mia.


Bäng Bäng! I Rammstein a Roma – 9 luglio 2013

RammsteinFuoco e metallo industrial-elettronico. Così potrei definire, in poche parole efficaci, le impressioni e lo stile ricreati dai Rammstein, in concerto ieri all’Ippodromo delle Capannelle di Roma. Ma anche, per citare loro stessi, tanz metal.

Dai miei primi vagiti di rock rabbioso ho avuto un forte debole per loro, non solo per quelle sonorità così spiccatamente battenti e dure o per la voce cavernosa di Till Lindemann, il cui Tedesco, diciamocelo, ci sta alla grande. Ma anche, moltissimo, per il valore che danno al lato estetico – evidente nei loro video dall’impronta cinematografica – e per quel loro essere dei grandi performers, che sul palco allestiscono dei veri spettacoli pirotecnici, densi di ironia di cui è maestro il tastierista Doctor Flake.

RammsteinImpossibile resistere al coinvolgimento e non provare adrenalinica simpatia, nonostante le numerose, spesso scontate e stufose, nazistiche critiche mosse alla band, che certamente non spicca per tematiche angeliche (una consuetudine nel metal) ma che, nelle sue incessanti provocazioni, è riuscita a raggiungere anche vette di poetica e melodia (sì, lo so, il Tedesco è veramente tanto cattivo e loro, fatta eccezione per lo smilzo tastierista, hanno tutti la prestanza di guerrieri!). La versione al pianoforte di Mein Herz Brennt, portata in tour, ne è un esempio, in netto contrasto con la scena sadomaso di Bück Dich, sempre comunque ironica. Per non parlare dell’indimenticabile Ohne Dich, che riporta subito alla memoria le intense immagini del video-film ufficiale.

RammsteinMa per i Rammstein è la carica a essere degna di nota e Feuer Frei, Sonne, Asche zu Asche, Du Riechst so Gut, Sehnsucht, Keine Lust e, su tutte quelle che hanno costituito un’ora e mezzo di scaletta, l’emblematica Du Hast rimangono la firma della band industrial.

Questa mia non vuole essere una recensione. Non occorre. I Rammstein o si odiano o si amano e se si amano… sono maledettamente bravi! La rassegna annuale Rock in Roma si conferma piena di appuntamenti significativi e la capitale è ormai divenuta uno dei punti di riferimento in Italia per noi rockers. Unica nota stonata, il costo troppo elevato dei biglietti, decisamente fuori luogo in questo periodo tanto critico.

Un momento del concerto

E forse potrei aggiungere che preferisco di gran lunga la presenza di gruppi spalla, che quella di un dj che mixa i brani dell’imminente concerto, ormai di moda. Ma pazienza, ha contribuito solo a scaldare l’attesa e ad accendere gli animi, incitando lui stesso il pubblico a gridare “Fuck the dj, we want Rammstein!”.

 

La chiusura del concerto

Foto S.A.R. – Video F.S.M.


La Cripta di San Magno ad Anagni

1Anagni è una piccola cittadina del Lazio meridionale, in provincia di Frosinone, il cui nome ha impresso nella memoria storica il riferimento a ben quattro papi, ai quali ha dato i natali.

2Tra gli edifici in pietra del centro medievale, emerge la cattedrale in stile romanico dedicata a Santa Maria (la cui costruzione è stata realizzata negli anni 1062-1104), notabile per il pavimento a Mosaico Cosmatesco e, in specie, per la meravigliosa Cripta di San Magno, ribattezzata da molti la Cappella Sistina del Medioevo, per il ciclo di affreschi che ricopre le sue pareti e che mostra ancora oggi, grazie a una sapiente opera di restauro, la vivacità dei colori e la pregnanza simbolica dei soggetti trattati.3

Attribuiti a tre differenti artisti, cosiddetti Pittore delle Traslazioni, Pittore Ornatista e Frater Romanus, gli affreschi parlano all’osservatore della creazione, delle disquisizioni tra Ippocrate e Galeno, dell’Arca dell’Alleanza, del martire Magno, patrono della città dei papi, cui la cripta è dedicata.

Entrare al suo interno, nel breve lasso di tempo concesso ai visitatori (un quarto d’ora), assume quasi i connotati della catabasi in un antro mistico, dove l’oscurità è illuminata dal colore tra le colonne di travertino e gli archi romanici, dove ogni passo percuote lievemente il pavimento, anch’esso cosmatesco, senza rompere il silenzio, dove ogni sussurro cerca di rispondere timidamente alla parola terribile di quel Cristo giudice, il cui Verbo ha la potenza di una spada.

4Suggerisco la lettura del libricino di Gianfranco Ravasi “La Cripta della Cattedrale di Anagni. Una piccola Sistina sotterranea”, a cura della Cattedrale di Anagni, dove è possibile acquistarlo.

Per info e prenotazioni: 0775 728374 oppure anagnicattedrale@libero.it5

 

 

 

 

 

Foto di F.S.M. e S.A.R.

 


Contro la sperimentazione sugli animali

Avevo pubblicato il seguente articolo sul settimanale L’Azione del 4 Giugno 2011, dopo aver parlato di sperimentazione sugli animali anche sul mensile XTimes n. 25 (novembre 2010, “Vivisezione. Atto criminale”). Almeno ora sono contenta di poter dire che un risultato, quello dello scorso marzo, è stato raggiunto: in Europa i test cosmetici sugli animali sono banditi. Non è ancora tutto, anzi, è solo il primo passo di una lotta che dura da troppi anni: contro il carrierismo e gli interessi economici di coloro che praticano o favoriscono tale becera e inutile sperimentazione, contro i pregiudizi di chi, fuori dalle conoscenze tecniche, ignora le amare verità e preferisce restare a guardare. Non occorre essere “animalisti” per schierarsi contro, è sufficiente avere buonsenso, quello che sempre più manca nella nostra società.

Nel rispetto degli animali

In natura c’è un’incredibile varietà di esseri viventi, appartenenti a diversi livelli evolutivi, tutti sicuramente necessari per la funzionalità degli ecosistemi, qualunque sia la loro specie. Il cosiddetto “livello evolutivo” si riferisce a uno schema elaborato dagli studiosi di biologia “evoluzionistica” che, attraverso l’analisi degli organismi del passato (ossia le tracce che essi hanno lasciato) e di quelli attuali, hanno costruito una scala che, dal gradino più basso, giunge a quello più alto, dove collocano l’Uomo. A ogni livello, ciascuna specie ha sviluppato il miglior adattamento possibile al proprio habitat e all’ecosistema di cui fa parte, compartecipando a quell’equilibrio indispensabile per il normale andamento del pianeta, un concetto che appare molto lontano da quello che vede l’Homo sapiens come essere superiore a tutti gli altri, padrone incontrastato della Terra. Tale condotta dominatrice, se in antico poteva orientarsi verso l’utilizzo degli animali come cibo o come aiuto nel lavoro, nel tempo ha assunto sempre più i connotati di uno sfruttamento in serie, dovuto non solo alla spaventosa crescita demografica mondiale, ma anche all’evoluzione dei costumi e al progresso in campo medico. Nel primo caso, la richiesta sempre maggiore di cibo ha portato a sviluppare un’industria alimentare, che pone gli animali in vere e proprie catene di “s-montaggio”, utilizzando nel contempo una lunga serie di farmaci, che ingrassano gli stessi, li indeboliscono ed entrano, giocoforza, nella fisiologia di coloro che se ne nutrono. Nel secondo caso, i costumi sociali hanno spinto a vedere il mantello di molti mammiferi, ma anche il piumaggio degli uccelli e la pelle dei rettili, non più solo come un elemento protettivo dagli agenti atmosferici e dai rigori del freddo, ma piuttosto come legato alla vanità, foraggiando pertanto allevamenti di animali da pelliccia, o tristi fenomeni come la caccia alle foche e ad altre specie dal pregiato pelo. Spesso, gli individui vengono privati del proprio mantello quando sono ancora vivi, per preservarne la bellezza, con indicibili sofferenze per gli stessi. Nel terzo caso, dopo che gli studi di anatomia applicati su persone, ma anche animali, negli ultimi secoli, hanno portato allo sviluppo della medicina, si è arrivati all’ingente crescita dell’industria farmaceutica, che immette nel mercato centinaia di nuovi prodotti medicinali ogni anno, spesso ancora oggi testati sulle altre specie, nonostante il progresso possa consentire l’utilizzo di sistemi di sperimentazione alternativi. Al di là dell’evidente tortura cui sono sottoposti milioni di animali, cani e gatti compresi, occorre sottolineare che la sperimentazione animale non costituisce un valido criterio per testare l’efficacia di un farmaco destinato all’uomo, essendo le reazioni specie-specifiche, ossia peculiari per ogni specie, rivelandosi spesso perfettamente inutili e persino pericolose per gli esseri umani. Sono migliaia, ogni anno, coloro che muoiono per aver assunto medicinali, peraltro attualmente è obbligatorio anche il test sui tessuti umani, sia esso effettuato in vivo o in vitro. Tali test vengono tristemente applicati anche nell’industria cosmetica, contribuendo ad avere un quadro in cui innocenti creature, per il nostro presunto bene, evidentemente in maniera errata, vengono sottoposte a ogni sorta di crudeltà, che in sostanza si rivela inutile, a meno di non considerare utili i guadagni economici e carrieristici di chi specula nel campo della sperimentazione animale. Negli anni molte sono state le associazioni e le persone che si sono battute contro questo inutile scempio, consapevoli anche del danno portato agli esseri umani, arrivando a leggi e promesse che, progressivamente, eliminassero completamente tale modus operandi. Purtroppo, nel Settembre del 2010, una nuova direttiva (la Direttiva 86/609) ha disincentivato l’uso dei metodi di sperimentazione alternativi, riportando indietro di decenni la lotta contro quella che, altresì, viene chiamata vivisezione e favorendo gli interessi economici della suddetta industria farmaceutica e dei progetti di sperimentazione sugli animali, portati avanti in alcuni centri di ricerca. L’unico modo che abbiamo di contrastare questa retrocessione, dopo attenta informazione e presa di coscienza, non solo frutto di maggiore sensibilizzazione, ma anche di logica ragionevolezza, è quella di optare per l’acquisto di prodotti che rispondano allo standard contrario alla sperimentazione animale, sapendo che sono molti anche i medici e i ricercatori obiettori, che adottano test alternativi e perfettamente funzionali. Le opportune scelte di mercato, nell’alimentazione, come nella moda e nella cura del sé, favoriscono l’indirizzo di tutti verso migliori condotte. Del resto, anche uno dei più grandi illuminati del nostro tempo, Mahatma Gandhi, sosteneva che «di tutti i crimini neri che l’uomo commette contro Dio e il Creato, la vivisezione è il più nero».

conigliosalvo


Qualche parola sull’Attività Solare

solarÈ il motore che permette alla vita organica di mantenersi sul nostro pianeta, di innescare sofisticati processi biochimici nelle piante come negli animali, consentendo nascita, crescita, riproduzione e scambi tra specie e regni naturali, finanche il più semplice benessere psicologico dell’Uomo. Il Sole, venerato fin da epoche remote come la divinità per eccellenza, che scandisce i ritmi temporali, biologici, agricoli e sociali, è più prosaicamente una nana gialla, secondo la classificazione astronomica relativa alle stelle. Sostanzialmente una palla di plasma costituito da idrogeno, elio, ossigeno, carbonio, azoto e neon, la sua influenza sulla Terra e sui suoi abitanti è molto più complessa e fondamentale di quanto generalmente si ritenga, tanto da condurre la NASA, a partire dall’11 Febbraio 2010, a intraprendere un programma specifico di monitoraggio dell’astro, lanciando il Solar Dynamics Observatory (SDO). Questo telescopio spaziale riporta quotidianamente informazioni su un complesso di eventi di natura elettromagnetica, che si estrinseca in CME (eiezioni di massa coronale), brillamenti (solar flares) e conseguente vento solare. Tali eventi sono legati all’attività della nostra stella che, in un ciclo di undici anni, aumenta progressivamente da un minimo a un massimo, manifestando sulla sua fotosfera delle macchie, dovute probabilmente a un rilascio di energia, durante la riconnessione delle linee del campo magnetico solare. La CME è un’espulsione di massa coronale, di plasma costituito prevalentemente da protoni ed elettroni. Il vento solare conseguente è un flusso continuo di particelle residue (protoni, elettroni o antiparticelle), che si muovono a una velocità di 5 milioni di km all’ora, investendo i corpi celesti che si trovano sulla sua rotta, tra cui il nostro pianeta, provocando possibili danni ai sistemi di navigazione aerea, ai satelliti, alle comunicazioni radio ed elettriche, ma anche gli splendidi fenomeni noti come aurore boreali e australi, frutto dell’interazione con la ionosfera terrestre. I solar flares sono violente eruzioni esplosive della fotosfera, che avvengono in seguito alle reazioni nucleari tipiche delle stelle, di una potenza paragonabile allo scoppio di milioni di bombe atomiche, con un’onda d’urto che viaggia lateralmente attraverso la fotosfera, la cromosfera e la corona, visibili come lunghe protuberanze per mezzo di adeguati strumenti astronomici. In base alla loro potenza, in progressione dal più debole al più forte, essi sono classificati come A, B, C, M, X. Gli eventi di tipo C sono piuttosto frequenti, meno lo sono le ultime due classi, M e X, le cui conseguenze, quando si sono verificati, sono state misurabili anche nei giorni seguenti, dato che gli effetti si manifestano nelle 24-48 ore successive. La ragione dei brillamenti è ancora pressoché sconosciuta, seppure l’ipotesi è che sia dovuta allo scontro fra campi magnetici di opposta polarità nel punto del flare, in quella che viene definita riconnessione magnetica. La Terra, come ogni corpo celeste, presenta un suo campo magnetico, che giocoforza viene influenzato da quello della nostra stella, specie nel suo momento di massima attività, provocando non solo possibili scompensi alle comunicazioni radio o satellitari suddette, ma anche fenomeni quali il repentino spostamento di alcuni chilometri del Polo Nord Magnetico, come nel Gennaio del 2011, quando traslò dal Canada alla Russia di 64,3 km. Tali eventi possono incidere sull’orientamento di animali quali insetti, pesci, uccelli e cetacei, vittime questi ultimi di frequenti spiaggiamenti, ma anche sul traffico aereo e navale. Secondo gli scienziati della NASA, l’attività del Sole si sta intensificando, rendendo altamente probabili altri potenti brillamenti solari e il rischio di nuovi disturbi al normale andamento sociale, specialmente nell’uso di energia elettrica, come ad esempio un generale black out, per riprendersi dal quale ci potrebbero volere anche anni. Alcuni scienziati, come il geologo americano Robert M. Schoch dell’Università di Boston, ritengono che un fenomeno estremo come un solar flare o una CME siano avvenuti circa 12.000 anni fa, alla fine dell’ultima Era Glaciale, portando all’estinzione alcune specie e alla decadenza alcune civiltà dell’epoca, come testimonierebbero anche numerosi ritrovamenti archeologici. In attesa, si fa per dire, di eventi solari determinanti per la Terra, ogni giorno il Solar Dynamics Observatory registra fedelmente i singoli vagiti della stella nana. Chi volesse approfondire può consultare il sito http://sdo.gsfc.nasa.gov/, i cui riferimenti si trovano anche su Facebook e nell’applicazione per Smartphone 3DSun, dove gli aggiornamenti sull’attività della nostra stella sono forniti in tempo reale.

Suggerisco la lettura del libro “La civiltà perduta e le catastrofi dal Sole”, edito da noi della XPublishing, del geologo e amico Robert M. Schoch di cui sopra, da me intervistato su XTimes n. 48.


Povera Italia. Intervista all’economista Eugenio Benetazzo (XTimes n. 51)

eugenio-benetazzoEcco la mia intervista all’economista Eugenio Benetazzo sull’attuale crisi economica. La lucida analisi di un tecnico sulle origini e le prospettive della più grave crisi dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Visualizza l’articolo in PDF


Terremoto: intervista a Giampaolo Giuliani (XTimes n. 45)

giulianiA poche settimane dal forte sisma che ha colpito l’Emilia, intervistiamo il sismologo Giampaolo Giuliani, che da anni porta avanti le ricerche sulla prevedibilità dei terremoti

L’Italia è un Paese a elevato rischio sismico, si sa. Ma il rischio, nei secoli, è divenuto una certezza, specie gli effetti collaterali dei terremoti che, nonostante il trascorrere del tempo e l’apparente progresso tecnologico, continuano a seminare distruzione e vittime. Ogni giorno l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia registra numerosissimi eventi sismici, non solo nel nostro territorio, perlopiù irrilevanti. A questi si sommano fenomeni particolarmente ingenti e gravosi che, se nel passato potevano risultare sporadici, appaiono oggi via via più frequenti, in maniera coerente con il trend globale e con l’aggravarsi del quadro geofisico, ma anche politico, economico e sociale… quasi a voler dare ragione alle leggende nefaste che riguardano l’anno in corso, in un dramma crescente che vede l’essere umano sempre più impotente e in balia degli eventi.

L’ultimo grave episodio italiano è quello accaduto in Emilia il 20 e il 29 maggio, date delle due scosse principali (secondo i dati ufficiali, rispettivamente di magnitudo Richter 5.9 e 5.8), intervallate e ancora seguite da uno snervante sciame sismico apparentemente senza fine, il cui bilancio a oggi è di 27 vittime e 16 mila sfollati. Voci ufficiose riferiscono che quella emiliana non sia terra sismica e imputano le scosse a una causa artificiale: il fracking o fratturazione idraulica, una pratica di trivellamento del suolo, di alcuni chilometri, per la ricerca di petrolio e gas, attraverso l’immissione nel terreno di fluidi che facilitino le perforazioni, di composizione chimica varia (tra cui metalli pesanti), estremamente inquinanti. La pericolosità del fracking si manifesta anche nella conseguente instabilità del terreno, con rischio di crolli e di fenomeni di natura sismica e in Emilia Romagna vi sono ben 514 pozzi perforati. È solo una coincidenza? Vero è che le cronache storiche riferiscono di importanti sismi nel ferrarese, risalenti al 1570 e al 1639, inserendo il territorio emiliano nel quadro della sismicità italica, che nei suoi apici ancora porta a formulare la domanda di rito: pur di fronte ai rigori delle forze naturali, la tragedia può essere evitabile? Come risposta rimane l’annosa polemica sull’assoluta mancanza di prevenzione, ma anche sulla prevedibilità di un fenomeno studiato da decenni. A sentire i ritornelli dei presunti esperti, i cui cori vengono diffusi da ogni mezzo di comunicazione privilegiato, la televisione in primis, i terremoti non si possono prevedere. Eppure, scienziati autorevoli ritengono che ci siano precisi segnali che testimoniano l’arrivo di un sisma, frutto di un attento monitoraggio e dell’utilizzo di una tecnologia oggi sofisticata. Tra questi vi è anche il nostro connazionale Giampaolo Gioacchino Giuliani, voce fuori dal coro troppo spesso politicizzato, sismologo divenuto noto all’opinione pubblica in occasione del terremoto che ha distrutto L’Aquila nel 2009. Allora, cercando di avvisare la popolazione locale del pericolo che correva, sotto la spinta del capo della Protezione Civile Bertolaso, fu accusato di procurato allarme, accusa dalla quale venne completamente prosciolto, in quanto, secondo il GIP Massimo di Cesare, «… l’evento sismico annunciato sulla scorta delle proprie indagini impedisce di considerare ex ante inesistente il pericolo di terremoto». Giuliani, come un altro grande sismologo osteggiato dall’establishment nello scorso secolo, Raffaele Bendandi, porta avanti da numerosi anni le sue ricerche sulla previsione dei terremoti, attraverso lo studio dei precursori sismici, i parametri che subiscono fluttuazioni nel corso dell’attività sismica. Abbiamo chiesto allo scienziato di descriverci i suoi studi.

Silvia Agabiti Rosei: Da quanto tempo opera nel settore della sismologia e con quali competenze?
Giampaolo Giuliani: «Ho lavorato per più di 40 anni come tecnico ricercatore nel campo dell’astrofisica e negli ultimi 15 anni come ideatore e responsabile di una ricerca sperimentale sui precursori sismici».

S.A.R.: La serie di terremoti ancora in corso in Emilia è l’ennesimo drammatico evento di tale natura, in un Paese come l’Italia a rischio sismico, dato il suo contesto geologico. Si poteva prevedere?
G.G.:
«Tutti i fenomeni fisici universali hanno delle cause che li producono. Lo studio e la conoscenza delle cause ci permettono di prevedere i fenomeni. Se in Emilia avessimo avuto delle stazioni come quelle che abbiamo in Abruzzo, sicuramente avremmo osservato quelle anomalie che ci avrebbero permesso di prevedere i terremoti».

S.A.R.: In cosa consistono le sue ricerche basate sul monitoraggio del gas Radon? Dove vengono portate avanti?
G.G.: «Alcune delle cause che producono i terremoti sono quei fenomeni che accrescono lo stress cui vengono sottoposte le rocce della crosta terrestre: incremento termodinamico del fluido magmatico del Mantello, accumulo di carica elettrica nelle placche locali o nelle placche continentali, effetto mareale prodotto dal ciclo anomalistico astronomico lunare ed altri fenomeni correlati. La nostra ricerca sperimentale correla, attraverso la variazione di flusso del gas Radon che emerge dalla crosta terrestre, questi fenomeni, evidenziando le anomalie che identificano i processi di preparazione dei terremoti. Queste stazioni di monitoraggio sono localizzate in Abruzzo: Coppito (L’Aquila), Ripa Fagnano (AQ), Magliano de’ Marsi (Avezzano – AQ)».

S.A.R.: Nel nostro Paese da anni si continua a sostenere, pubblicamente, che i terremoti non possono essere previsti. Eppure, la comunità scientifica internazionale ritiene attendibile la correlazione tra Radon ed eventi sismici. Come mai in Italia non ha la giusta valutazione e un ricercatore serio e scrupoloso come lei è stato persino contrastato?
G.G.: «Perché chi ha gestito il potere, nell’indirizzare le scelte scientifiche negli ultimi 30 anni in Italia, ha preferito abbandonare la strada della ricerca sperimentale sui precursori sismici, sostenendo che non sarebbe mai stato possibile prevedere i terremoti. La ricerca pura non può essere decisa da scelte politiche e per interesse personale di pochi. Prima o poi la natura si ribella alle scelte sbagliate dell’uomo e lo punisce mettendo a nudo i suoi errori».

S.A.R.: Al di là del Radon, è possibile avere un margine di prevedibilità di un terremoto, consultando i sismografi e l’andamento dell’energia di un luogo?
G.G.: «Attraverso un controllo attento del territorio, anche solo per mezzo dell’utilizzo di sismometri ed accelerometri, è possibile avere un buon margine di sicurezza e prevedibilità sugli accadimenti sismici, almeno in tutti quei casi in cui il terremoto si preannuncia attraverso una serie di eventi nella stessa zona epicentrale e con il grado sismico in incremento, giorno dopo giorno. Quasi tutti i forti terremoti annunciano il loro arrivo bussando almeno tre volte, prima del loro arrivo».

S.A.R.: Cosa pensa delle teorie di Bendandi, relative a un’influenza da parte di fattori cosmici su eventi geofisici, compresi quelli sismici? L’attrazione gravitazionale ha influenza sui movimenti del mantello e della crosta terrestre?
G.G.: «Condivido molto della ricerca scientifica di Raffaele Bendandi, alcune delle sue intuizioni si correlano con una buona parte delle osservazioni sulle variazioni di Radon da noi effettuate. Sicuramente l’influenza planetaria è uno dei fenomeni che trova riscontri sulle cause dei sommovimenti della Terra. L’effetto mareale, osservato sul nostro pianeta, prodotto dal ciclo anomalistico astronomico lunare, di 27.5 giorni, è anch’esso uno dei fenomeni che partecipano alla formazione di piccoli, medi e forti terremoti. Sempre per scelte politiche e non scientifiche, se chi di dovere avesse approfondito le ricerche di Raffaele Bendandi, forse oggi la nostra cultura sul terremoto avrebbe trovato una popolazione meglio preparata e quasi certamente si sarebbero contati meno morti di quanti fino ad ora ne abbiamo contati solo in Italia».

S.A.R.: Sempre a tal proposito, alcune antiche civiltà hanno certamente manifestato competenze astronomiche, tanto da portare a sostenere una coincidenza tra particolari fenomeni celesti (allineamenti, passaggi di meteoriti o comete, eclissi) ed eventi di natura geofisica, calcolabili e quindi prevedibili. Una siffatta coincidenza viene attribuita persino al sisma del 20 maggio in Emilia. Pensa che siano solo ipotesi suggestive, o realmente è possibile che la Terra e la sua attività siano influenzate da fenomeni astronomici?
G.G.: «Sicuramente la Terra risente di particolari fenomeni dovuti all’interazione planetaria esercitata sul pianeta. Questo gli antichi scienziati lo avevano intuito. Oggi molti degli stessi fenomeni vengono studiati solo superficialmente o addirittura ignorati. Non siamo ancora possessori delle verità assolute sui fenomeni universali, non conosciamo con certezza neanche la terra che calpestiamo e non è certo un segreto che la maggior parte degli uomini lascia ancora oggi condizionare la sua vita da miti, leggende, profezie e superstizioni».

S.A.R.: Bendandi ha studiato molto l’attività magnetica ciclica del Sole, che scienziati di tutto il mondo hanno approfondito negli ultimi decenni e che, proprio in questo periodo, sta aumentando, come segnalato dalla stessa NASA. Esiste, secondo lei, una correlazione tra tale attività magnetica del Sole (eventi di plasma, CME, tempeste magnetiche) e quella sismica, il cui incremento attuale è innegabile?

G.G.: «Quando parliamo di fenomeni planetari che coinvolgono il nostro pianeta, primo tra tutti è proprio il nostro Sole a condizionare la Terra. Questo astro, attraverso tutta la sua attività, determina l’evoluzione Geofisica della Terra e di tutto ciò che su di essa nasce, vive e poi muore. Prima fra tutte, la vita stessa dell’uomo».

S.A.R.: Molti sismologi mainstream ritengono che non vi siano correlazioni tra eventi sismici in luoghi differenti, seppure adiacenti. Ma questo appare difficile a rigor di logica e seguendo le teorie di altri scienziati, come lo stesso Bendandi, secondo cui ogni singolo evento sismico coinvolge tutto il globo. Cosa ne pensa?
G.G.: «Sono convinto che qualsiasi rilascio di energia sotto la crosta terrestre influenzi in qualche modo tutte le faglie adiacenti e non solo quelle. L’energia rilasciata durante gli accadimenti sismici si dissipa attraverso le faglie, andando ad incrementare l’energia di quelle silenti. Tra l’altro, è possibile osservare le onde sismiche sferiche rilasciate dal terremoto con un semplice sismometro, da qualsiasi punto del pianeta».

S.A.R.: In cosa consiste la prevenzione e come mai, in un territorio sismico come quello italiano, non esiste ancora un piano efficace in tal senso e, persino, si arriva a scambiare la corretta informazione per allarmismo? Quali interessi, eventualmente, si proteggono?
G.G.:
«La prevenzione è la perfetta conoscenza delle cause che producono i fenomeni fisici. Osservare l’addensarsi delle nuvole ci invita a munirci dell’ombrello prima dell’arrivo della pioggia. Se l’Italia non possiede ancora un piano di prevenzione, lo si deve a scelte sbagliate da parte di chi aveva il dovere e l’obbligo di predisporlo, almeno da trent’anni a questa parte. Si è preferito lasciare la popolazione nella propria ignoranza sugli accadimenti sismici ed oggi ne paghiamo le conseguenze con un grosso tributo di cittadini morti. Ciò che gli uomini di scienza avrebbero dovuto insegnarci nel tempo ce lo sta insegnando la natura, attraverso i suoi fenomeni, cosiddetti imprevedibili. Speriamo che sia arrivato il tempo in cui forti interessi personali di pochi, legati alla ricostruzione ed ai guadagni illeciti, vengano smascherati una volta per tutte, predisponendo nuove leggi e comportamenti, che garantiscano l’incolumità dei cittadini, di fronte a qualsiasi fenomeno fisico prevedibile».

S.A.R.: Cosa pensa della teoria secondo cui il fracking avrebbe contribuito al terremoto in Emilia?

G.G.: «Il fracking o hydrofracking è il metodo più economico per l’estrazione degli idrocarburi e dei gas. Viene anche utilizzato per produrre dei microsismi controllati. L’uso indiscriminato sui territori a rischio sismico può produrre anche terremoti di intensità da 5.0 a 5.5 della scala Richter.

Ogni volta che l’equilibrio dell’ambiente viene modificato ed alterato, la natura stessa effettuerà un riequilibrio, utilizzando fenomeni che spesso possono essere pericolosi. Laddove la mano dell’uomo apporta delle modifiche strutturali, in particolare sulle faglie crostali o nelle immediate vicinanze di esse, sui successivi fenomeni di reazione, non si può più parlare di coincidenze e casualità, come abbiamo spiegato Alberto Fiorani e io nei libri “L’Aquila 2009. La mia verità sul terremoto” e “La forza della memoria”».

S.A.R.: In Italia, negli ultimi decenni, la ricerca scientifica è stata affossata dalla mancanza di fondi, una situazione destinata a peggiorare sensibilmente con la pesante crisi economica che stiamo vivendo. Nonostante ciò, lei è riuscito a portare avanti le sue ricerche, utilizzando sia fondi privati, sia i suoi personali, creando anche la Fondazione G. Giuliani – Ricerca Sperimentale Precursori Sismici. Quali sono gli intenti suoi e della Fondazione?
G.G.: «Non credo che la penuria di finanziamenti sia da attribuire alla mancanza di fondi. I soldi destinati alla ricerca sono finiti nelle tasche di pochi pseudo scienziati senza scrupoli, per arricchire le proprie famiglie e le amicizie più strette. La disonestà della classe politica attuale, il potere esercitato da chi non possiede le principali capacità per proteggere la popolazione inerme hanno prodotto un arretramento scientifico del nostro paese, che non lascia sperare, nel prossimo futuro, un miglioramento ed un recupero rispetto all’attuale situazione fallimentare. Solo enormi sacrifici ed una passione sfrenata per la ricerca hanno permesso a me e a coloro che seguono i nostri lavori di mostrare i risultati fino ad oggi ottenuti. La Fondazione Giuliani è uno di quei risultati. Gli scopi che la Fondazione persegue sono legati certamente all’incremento dell’informazione sui precursori sismici, alla possibilità di accrescere la conoscenza e la cultura verso quella parte di popolazione che ne ha maggiore bisogno e recuperare gli anni perduti sulla mancata ricerca effettuata in questi ultimi tempi in Italia».

S.A.R.: Quale futuro prevede in Italia, per la scienza e, in particolare, per la sismologia?
G.G.: «La nostra Italia è la terra che nel tempo ha sfornato uomini eccellenti, le cui genialità sono riportate tra le pagine della storia scientifica di tutto il pianeta. Nonostante la sterpaglia che può produrre un campo incolto, ci sarà sempre un fiore più bello e diverso che emergerà tra la gramigna. Ogni nuova idea partorita dalla fantasia dell’uomo sarà sempre quel seme che riuscirà a germogliare nonostante tutte le avversità».


Intervista per Radio UFOCast, venerdì 16 dicembre, ore 22.00, su DEBITO PUBBLICO, SIGNORAGGIO BANCARIO

http://it.1000mikes.com/app/archiveEntry.xhtml?offset=150&maxResults=50&archiveEntryId=257128

 


La carne della discordia (XTimes n. 38)

L’eccessivo consumo di carne nei paesi industrializzati, oltre che dannoso per la salute, risulta strettamente correlato al problema della fame nel mondo. Vediamone gli aspetti principali

La maggior parte di noi ha, nel proprio immaginario e sin dalla più tenera età, l’idea di ben precise zone del mondo piagate dalla denutrizione. Un’idea alimentata dai filmati trasmessi da alcuni  telegiornali o programmi di attualità, affrontata con tristezza e disgusto, elaborata spesso con una rassegnata scrollata di spalle, perché data ormai per scontata, come un virus che potenzialmente infetta il nostro organismo, ma che, finché non ci tocca da vicino, è lontano, in quei Paesi sfortunati, vittime di una fortuita contingenza. Un’idea aliena al senso di responsabilità che, al contrario, dovrebbe farci riflettere seriamente sulle cause di tale aberrante situazione, che coinvolge governi, multinazionali, cittadini e scelte alimentari.

I numeri della fame

Secondo i più recenti dati della FAO (Food and Agricolture Organization), del WHO (World Health Organization) e dell’UNICEF (United Nations Children’s Fund), le persone che non hanno sufficienti risorse per sfamarsi sono quasi 1 miliardo, di cui il 98% nei Paesi in via di sviluppo (Terzo e Quarto Mondo). Il 65% vive in India, Cina, Bangladesh, Indonesia, Pakistan, Congo, Etiopia. Per oltre il 60% si tratta di donne. Ogni anno muoiono circa 10.9 milioni di bambini nei Paesi in via di sviluppo, di cui il 60% a causa della denutrizione o iponutrizione e delle patologie correlate. Un bambino su quattro (circa 146 milioni) nei suddetti Paesi è sottopeso. La mancanza di ferro e di iodio è l’effetto più dannoso della denutrizione, provocando peraltro, nel caso dello iodio, ritardo mentale e danni cerebrali (dati presenti nel sito http://www.wfp.org). Tra le patologie dovute all’insufficienza di cibo, vi sono lo scorbuto (mancanza di vitamina C), la pellagra (assenza di vitamina B3), il beri beri (carenza di vitamina B1) e il marasma infantile (carenza di proteine), che provoca il rigonfiamento dell’addome, tristemente tipico dei bambini africani. Sull’altro piatto della bilancia occorre mettere le conseguenze della malnutrizione e dell’ipernutrizione dei Paesi industrializzati e ricchi, nei quali sono gli eccessi a determinare serie patologie, quindi obesità, problemi cardiaci e circolatori, ipertensione, diabete. Danni auto-inflitti al nostro corpo dall’esasperato consumo di grassi, proteine, carboidrati, sale, nutrienti in genere, in cui due categorie risultano maggiormente implicate: da un lato i cibi troppo raffinati, frutto di elaborati processi industriali, pieni di additivi chimici di origine artificiale, che ne migliorano la capacità di conservazione, ma anche l’aspetto, il sapore e l’odore, con l’effetto di intossicare l’organismo; dall’altro la carne, consumata in quantità esagerate, molto spesso legata alla politica del fast food e dell’allevamento intensivo del bestiame.

In natura esistono numerosi adattamenti legati al cibo, che permettono di distinguere alcuni gruppi all’interno del regno animale: carnivori obbligati (come i Felidi), carnivori facoltativi (come i Canidi), onnivori (come gli Ursidi), erbivori (come la maggior parte degli Ungulati), insettivori (come alcuni micromammiferi, rettili, anfibi, etc.). Si tratta di una classificazione sommaria, che fa comprendere di primo acchito come, generalmente, gli esseri viventi tendano a seguire pattern comportamentali istintivi anche nella scelta del cibo, correlata alla propria fisiologia. L’uomo non è estraneo a tale tendenza, membro a tutti gli effetti del regno animale, salvo deviazioni di natura culturale, storica o sociale. L’Homo sapiens, molto simile ad altre specie di Primati, è culturalmente onnivoro, ma fisiologicamente è sostanzialmente vegetariano (crudivoro e frugivoro), almeno, secondo precisi studi ad hoc, lo è per un buon 98%, richiedendo un quantitativo di nutrienti, proteine comprese (sulla cui assunzione e derivazione sussistono numerosi e sfatabili miti), presente nel variegato mondo vegetale. In seguito alla costituzione di gruppi umani organizzati e progressivamente più complessi, alle fluttuazioni climatiche, agli scambi culturali, il consumo di carne è drasticamente aumentato nei secoli, portando con sé alcune specifiche patologie, che vanno da più o meno gravi disturbi della digestione, a serie malattie come la gotta, fino allo sviluppo di tumori dell’apparato digerente, particolarmente del colon. Se l’uomo fosse un animale carnivoro, non avrebbe certo tali effetti collaterali. Non si vuole, in questa sede, giudicare l’aspetto etico dell’alimentazione carnivora, tuttavia, pur rispettando le scelte alimentari di tutti, almeno da un punto di vista del buon senso, quella a base di carne andrebbe comunque drasticamente diminuita, in riferimento alle abitudini dei più nel mondo cosiddetto ricco. Se le ragioni salutistiche non bastano a spingere il consumatore a fare simili riflessioni, ci sembra corretto affrontare qua ragioni a più ampio respiro, che coinvolgono l’andamento alimentare mondiale e la stessa gestione della denutrizione sopra citata.

Il bestiame e il capitale

Abbiamo già trattato su queste pagine il delicato argomento delle risorse energetiche del nostro pianeta che, attualmente, sono drammaticamente compromesse: dall’acqua, alle colture, al mondo “verde” in generale, l’ecosistema tutto è in pericolo a causa del comportamento irresponsabile del consesso umano, soprattutto nei Paesi industrializzati, dove le regole di mercato e l’espansione economica delle multinazionali hanno preso il sopravvento, negli ultimi decenni in maniera parossistica, attuando nei Paesi del Terzo e Quarto Mondo una politica di sfruttamento delle risorse, atta a depauperare gli stessi con un atteggiamento che è possibile definire neo-colonialista, a vantaggio del mondo industrializzato e, soprattutto, dei poteri che lo gestiscono.

Tra tali risorse vi sono estesi appezzamenti di terreno che, soprattutto nell’America meridionale, ma anche in Africa (ad esempio nello Zaire) e in Asia (Sumatra) vengono spogliati delle foreste vergini che li popolano, a un ritmo spaventoso, per lasciare spazio ai pascoli estensivi dei bovini da carne e alle colture cerealicole, destinate al loro nutrimento. La richiesta di carne bovina è così elevata, data anche la crescita esponenziale della nostra specie e degli stili di vita “occidentali” associati, come appunto il fast food di cui sopra, che, secondo i dati più recenti, il numero di capi di bestiame nel mondo è arrivato a 1,3 miliardi, occupando il 24% della superficie terrestre. Una quantità enorme, che inficia l’ecosistema e gli equilibri del nostro pianeta in maniera considerevole: innanzitutto, la deforestazione di aree così vaste incide sull’inquinamento dell’aria, eliminando importanti fette del polmone verde globale, nonché sulla progressiva desertificazione dell’Africa subsahariana, ma anche di altre zone in Australia, in Asia e negli Stati Uniti. In secondo luogo, gli allevamenti colpiscono le falde acquifere attraverso la grande produzione di liquami e lo stesso metano che deriva dagli escrementi bovini è ritenuto un dannoso gas-serra. Inoltre, la ragione fondamentale dell’opinabilità di tale modus operandi dell’industria zootecnica è proprio legata al problema della denutrizione mondiale, dato che il quantitativo di cereali e altre colture, destinati a sfamare tale numero esagerato di capi di bestiame, potrebbe sopperire al fabbisogno nutrizionale di milioni di persone, che oggi, non casualmente, muoiono di fame. Jeremy Rifkin, presidente della Foundation on Economic Trends di Washington, da anni si occupa del rapporto tra l’evoluzione della scienza e della tecnologia e lo sviluppo economico, l’ambiente e la cultura. Nel suo splendido libro, “Ecocidio”, sono indicati dei dati importanti: ben il 70% delle colture cerealicole prodotte negli USA è destinato ai bovini, mentre a livello globale lo è oltre un terzo dei cereali prodotti. Quindi, ecco svelato il paradosso: l’organizzazione delle Nazioni Unite denuncia, attraverso organismi quali la FAO e l’UNICEF, il dato sconcertante secondo cui circa un miliardo di persone ha problemi di iponutrizione, gli stessi problemi che potrebbero essere adeguatamente risolti con politiche agricole e alimentari ben precise e semplici da realizzare, come la produzione di colture a loro destinate. Tuttavia, cosa in realtà accade? Da decenni, la scelta mirata è prediligere gli oltre un miliardo di capi di bestiame, fatti appositamente proliferare ai ritmi della catena industriale, per perseguire meri interessi economici dei produttori di carne e per diffondere i malesseri di ipernutrizione e malnutrizione nei Paesi ricchi. Davvero sconcertante, diremmo assurdo, trattandosi di pura illogicità, salvo concordare con le logiche capitalistiche, che tengono il mondo nella morsa in cui sta ora agonizzando. E non dimentichiamo che tale politica di ricerca dei pascoli e delle aree da adibire alle colture cerealicole per mangimi implica anche un’altra barbarie: l’allontanamento con la forza, sempre nei Paesi in via di sviluppo, dei piccoli agricoltori, costretti ad abbandonare la loro agricoltura di sussistenza.

Verso il fast food

A questo punto sorge spontanea una domanda: è corretto, per la loro fisiologia, ingozzare i bovini con tali quantità di cereali ad altissima energia? È vero che si tratta di animali vegetariani, ma per il loro metabolismo è necessaria una minima variabilità, in moltissimi capi sono state infatti riscontrate malattie del sistema digestivo, come la presenza di ascessi al fegato. Tuttavia non è certo questa la maggiore crudeltà cui essi vengono sottoposti. Solitamente il bestiame viene imbottito di antibiotici per contrastare il proliferare di patogeni, nonché di farmaci che sincronizzano l’estro delle femmine, per programmare la riproduzione. Per evitare che gli individui si feriscano a vicenda con le corna, queste vengono meccanicamente recise o bruciate alla radice. Negli allevamenti intensivi, all’interno di grosse strutture chiuse o semplici aree recintate, lungi dall’essere liberi di pascolare, gli animali vengono legati e assiepati in grande numero uno di fianco all’altro, senza la possibilità di muoversi, provocando la degenerazione delle loro ossa, soprattutto a causa dei numerosi ormoni con cui vengono imbottiti, affinché si gonfino e producano un quantitativo molto più elevato di carne ed eventualmente latte: steroidi anabolizzanti, che stimolano il loro organismo a sviluppare maggiori quantità di proteine, quindi massa muscolare, ma anche adiposa. Nutrendosi di tali animali, antibiotici e ormoni entrano anche nell’organismo umano, insieme a tranquillanti, anemizzanti, ma anche erbicidi con cui è trattato il mangime e insetticidi irrorati nelle stalle. Insomma, se proprio lo scrupolo non è quello del rispetto degli individui in quanto esseri viventi, che, dopo essere stati sottoposti a indicibili sofferenze, terminano la propria triste vita nei mattatoi, sarebbe il caso di riflettere sulle sostanze tossiche che si ingeriscono, consumando la loro carne. Ricordiamo che non di soli cereali vengono nutriti i bovini d’allevamento, ma anche di materiale impensabile, quale polvere di cemento, cartone da giornale, rifiuti industriali e oli esausti, persino plastica e sterco di altri animali, tutti forieri di danni e patologie (vedi ad esempio l’infezione da Escherichia coli). Ci permettiamo, appoggiando Rifkin, di considerare beffardamente amara la fine odierna di un animale come il bovino che, sia nell’essere bue sia nell’essere vacca, da sempre, dagli albori della civiltà, è stato venerato come divinità legata alla fertilità e alla ricchezza, ancora oggi rispettato in alcune zone della Terra. Ma non nel mondo dei ricchi, evidentemente, che tratta i capi di bestiame come macchine da produzione di carne e latte e, è giusto sottolinearlo, i suoi consumatori umani come macchine che si ingrassano a spese loro e della propria salute, entrambi anelli inconsapevoli di una catena industriale, manovrata dalle multinazionali: solo per citarne alcune, le statunitensi Gulf & Western, International Foods, Dow Chemical, Swift e, naturalmente, McDonald’s. Quest’ultima, fondata da Ray Kroc nel 1954, è leader indiscussa del fast food way of life ovunque, considerando che una grossa percentuale della carne prodotta in tutto il globo è destinata a trasformarsi in hamburger, un trend crescente a ritmi impressionanti dal dopoguerra a oggi, divenuto sinonimo di globalizzazione. A spese di chi è ormai chiaro.

Contro la logica del profitto

Qualche anno fa la tranquillità dei consumatori di carne è stata funestata dall’esplosione di numerosi casi, in Europa, di una malattia neurodegenerativa, la versione umana della sindrome di Creutzfeldt-Jacob, meglio nota come morbo della mucca pazza, o encefalopatia spongiforme bovina (BSE), provocata dall’ingestione di prioni deformati, proteine presenti nel cervello umano e animale, le quali, in seguito a infezione, divengono tossiche per il tessuto cerebrale, trasformandone le cellule in microscopici corpi spugnosi. Il primo caso venne in realtà riscontrato per la prima volta nel Regno Unito nel 1986, ma si ritiene che la BSE abbia avuto origine già a partire dagli anni Settanta, in seguito all’alimentazione di bovini d’allevamento con farine a base di carne di pecore, morte a causa di una malattia simile, detta in inglese “scrapie”. La manifestazione del morbo dopo oltre un decennio è dovuta al lungo periodo di incubazione. La grande diffusione di casi concentrati fra il 1997 e i primi anni del 2000 provocò l’abbattimento di migliaia di capi, un’iniziale calo delle vendite nel settore zootecnico, poi progressivamente ripristinate, grazie anche al divieto di utilizzo di farine animali nella nutrizione dei bovini, ma anche a un maggiore controllo e all’introduzione di un sistema di etichettatura, per indicare la provenienza delle carni. Nonostante ciò, a causa della gestione sconsiderata degli allevamenti e delle risorse energetiche, come abbiamo osservato in tale sede, non è possibile sentirsi sicuri finché animali di cui si nutre l’essere umano saranno trattati in maniera aberrante. Il grande etologo Desmond Morris ha proposto, nella sua Carta dei Diritti degli Animali, il principio secondo cui, se per assecondare un’eventuale catena alimentare, è preferibile mangiare carne, è necessario che gli esseri viventi che la forniscono all’uomo siano rispettati fino al momento della propria morte. Rispettando così, aggiungiamo noi, anche gli esseri umani stessi.

La natura fornisce all’uomo tutto ciò di cui ha bisogno. Dando per scontata una condotta eco-compatibile ed eco-sostenibile, il mondo vegetale è ricco di nutrienti cui attingere, senza alcun tipo di controindicazione, come spiegato dal testo intelligente ed esauriente di Michele Riefoli, “Mangiar sano e naturale con alimenti vegetali e integrali”, Macro Edizioni, in cui si affrontano anche i delicati temi da noi qui considerati, correlati al consumo di carne, come quello, tutt’altro che irrisolvibile, della fame nel mondo, uno status quo perseguito dai poteri, gli stessi poteri che ci influenzano quotidianamente, ma che possiamo anche contrastare. La battaglia contro le politiche di mercato delle multinazionali e contro la logica del profitto, infatti, può passare anche attraverso la scelta consapevole di ciò di cui nutrirsi, nonostante sia sicuramente difficile orientarsi in una società del consumo di massa come la nostra, in cui i cittadini si muovono come ipnotizzati tra prodotti artificiali e pubblicità. Il vero sforzo è nel cercare di rimanere svegli, ma ne vale la pena, se il fine è la salute nostra e del nostro pianeta. L’unico, come amiamo ricordare, in cui possiamo vivere.

Bibliografia:

“Ecocidio. Ascesa e caduta della cultura della carne”, di Jeremy Rifkin, Mondadori

“Mangiar sano e naturale con alimenti vegetali integrali”, di Michele Riefoli, Macro Edizioni

“Biologia: cibo e popolazione”, di Robert Barrass, Mondadori

“Antropologia evoluzionistica”, di Gabriella Spedini, Piccin


Una Rosa per la Vittoria – concerto dei Sigur Ros a Roma 12 Luglio 2008

sigur_rosI Sigur Rós, di nuovo in Italia con tre date, si esibiscono con il tutto esaurito alla Cavea dell’Auditorium Parco della Musica a Roma.

12 Luglio 2008, ore 21.00 – Il tramonto è avanzato, il solista Helgi Jonsson ha terminato la sua esibizione e dagli spalti gremiti e impazientemente rumorosi il cielo, tendente al blu notte, appare come la cornice di un dipinto poliedrico e sofisticato, modernissimo eppure romantico, la simmetrica amplificazione della magia nordica che sta per avvolgere il pubblico.

La Cavea si immerge nell’oscurità, vi nuotano ombre che si dispongono di fronte agli strumenti. Luce e giubilo accolgono Jónsi, Goggi, Kjarri e Orri, la band islandese dei Sigur Rós fondata nel 1994, dietro di loro sette globi luminosi a ricreare un paesaggio siderale, sette lune evocative della peculiare consonanza che li distingue e che dalle prime note di Svefn-G-Englar proietta l’ascoltatore in un viaggio intensamente spirituale, alieno, ultradimensionale. È lo specchio in cui sono riflesse la sensibilità e la ricerca interiore degli elementi del gruppo, che prende parola attraverso la voce dolcissima e pregnante, a tratti struggente, del cantante Jón Birgisson, un acuto che ne comunica la vita difficile, caratterizzata dall’omosessualità e dalla cecità di un occhio. È lo specchio in cui si riflette anche l’anima dell’ascoltatore, che entra in risonanza con canzoni dai testi ancor più affascinanti perché incomprensibili, come pregni di un linguaggio arcano che cela paesaggi e leggende d’Islanda, la terra del ghiaccio e dei vulcani e di un rapporto con la natura ancora genuino, testimoniato dallo stile alimentare vegano dei Sigur Rós.

La performance prosegue e il dipinto prende sempre più corpo, ospitando sulla scena gli archi delle quattro connazionali Amiina, con abiti da bambole di altri tempi, e cinque suonatori di fiati di bianco vestiti, riecheggianti un’Arancia Meccanica indubbiamente più pacifista, in una capacità tecnica di alternanza generale tra violini, trombe, percussioni, tastiere e xilofoni, dove immancabile interprete principale è l’archetto che Jónsi sapientemente calibra sulla sua chitarra, sfumando talvolta in tonalità più decisamente rock, curvo e ossessivo sullo strumento, avvolto in un insolito abbigliamento oscuro.

L’esecuzione di classici come Ny BatteryHoppipollaSaeglopurHafsol, fa da collante a brani tratti dal nuovo album, come Inni Mer Syngur e Gobbledigook con il suo coinvolgente plauso, che se a un primo ascolto poteva apparire a tratti discordante con lo stile tipicamente sigurrosiano, dal vivo si amalgama perfettamente alla precedente produzione. Lo spettacolo completa la propria trasformazione in opera d’arte con il magistrale arrangiamento di Popplagid, il cui incanto fa perdere la cognizione del tempo, un tempo che purtroppo sta volgendo al termine, scandito, oltre che dalla musica, dalla miriade di coriandoli bianchi che cadono sulla scena come neve, proiettando gli astanti in una dimensione invernale, nordica, nel pieno di una notte estiva romana.

I tredici musicisti salutano il pubblico, inchinandosi, i Sigur Rós escono da soli una seconda volta, applaudendo acclamati, ricordando, a discapito di tanti divi in odore di superbia, che la musica non è solo di chi la compone ed esegue, ma anche di chi la ascolta e la ama, è uno scambio di energia.